appunti dal campo N.1

Non riesco a zittirmi. Sono arrivata solo da un mese. Un mese soltanto a confronto con una realtà diversissima e sconosciuta, che dovrei e vorrei cercare di capire. Dovrei fare, come diceva un vecchio comboniano ai suoi fratelli appena arrivati in Africa: almeno per un anno SOLO ascoltare. Poi, quando si comincia a CAPIRE, si può anche cominciare a parlare. E invece io sento l’urgenza di scrivere, non sono ancora bene allenata a stare in ascolto e basta, e oltretutto ho paura di dimenticare. Maledetta memoria. Quindi farò la presuntuosa e scriverò. Ciao ciao umiltà.

Quello che scriverò ha a che fare con il mio orizzonte lavorativo (è proprio un orizzonte: lo vedo ma è lontanissimo): cooperazione e sviluppo internazionale. Quindi se l’argomento (o simili, penso che le rilessioni di seguito potrebbero essere un remembering per tutti quelli che lavorano nell’ “internazionale” o nel “multiculturale” ) non vi scalda, bypassate pure 🙂

Scrivo per ricordare cose che ho letto su qualche libro, durante qualche corso all’università e che dovevo aver dimenticato. O meglio, cose che forse dai libri non comprendi a pieno e che cominci a realizzare dagli esempi concreti. L’oggetto è la SOSTENIBILITA’ dei progetti di sviluppo/cooperazione internazionale.

Una delle cose fondamentali di cui assicurarsi nel momento in cui si pensa, elabora e scrive un progetto è che esso sia sostenibile, in diversi sensi (culturale, economico, ecologico, blabla). Quelli che mi interessano in questo momento sono soprattutto (non ho alla mano una fonte autorevole per definirli, quindi scrivo io a cacchio quello che si intende):

– sostenibilità “culturale”: un progetto è sostenibile quando si inserisce in modo “armonioso” nella cultura locale per cui è stato pensato.
– sostenibilità “temporale”: un progetto è sostenibile quando, una volta concluso il ciclo del progetto, saprà continuare, replicarsi da solo.

E qui parto con l’esempio (di seconda mano, ma fonte affidabile), in modo analitico-schematico.

PROBLEMA: Uno dei prolemi, anzi IL problema della Karamoja, è l’acqua. Ci sono 2 stagioni: secca e delle piogge. Per più di metà dell’anno non piove. Le attività principali di cui vivono gli abitanti sono agricoltura e allevamento. Per entrambe l’acqua è necessaria (oltre che per gli uomini in sè…). L’ambiente è savana: arido, non ci sono laghi e i fiumi sono stagionali (l’acqua c’è solo durante la stagione delle piogge, per il resto sono letti secchi). Questa irregolarità e scarsità dell’approvvigionamento dell’acqua causa parecchi problemi, che ve lo dico a fare…? Insicurezza alimentare galoppante. Con conseguenze su tutto, ma proprio tutto (se l’occupazione primaria e quasi esclusiva di una persona è cercare di nutrirsi, non gli restano tempo né energie per fare altro).

SOLUZIONI POSSIBILI (quelle che mi vengono in mente…):

  1. laghi artificiali/dighe. PRO: soluzione lungo termine (credo). CONTRO: richiedono un grosso investimento economico, oltre ad avere un impatto ecologico fortissimo.
  2. pozzi. PRO: diffusione capillare sul territorio, costo medio. CONTRO: soluzione a breve termine. E qui devo spiegare: (a) i pozzi necessitano di manutenzione altrimenti alla lunga (neanche tanto lunga, si spaccano). In Africa (sempre la solita generalizzazione odiosa) è probabile che la manutenzione non venga fatta. Quindi in poco tempo (anche solo 1 anno!) i pozzi diventano inutilizzabili e si perde un investimento medio (7/8 mila euro). (b) (di questo non ne sono sicura, ma lo metto) le falde sottostanti si esauriscono, seppur lentamente.
  3. Tanks (cisternone per la raccolta dell’acqua piovana). PRO: costo medio/basso, durata x (dipende dalla manutenzione anche qui); inesauribili. Possibilità di diffusione più che capillare. CONTRO: capienza contenuta.

Quindi: la soluzione, in termini non tecnici, più “abbordabile” sembra l’ultima.

E infatti qualcuno ci aveva già pensato. Anni addietro in Karamoja è stato fatto un grosso progetto finanziato, tra gli altri, dalla UE e implementato da alcune ong europee. In breve: in ogni villaggio (un villaggio comprende qualche famiglia, quindi tra le 20 e le 50 persone in media) sono stati messi uno/un paio di tank per la raccolta dell’acqua.

Pur non essendo un oggetto altamente tecnologico, anche il tank, come tutto, ha bisogno di un minimo di manutenzione perchè: un rubinetto si rompe, ci si fa un buco e perde acqua, si arrugginiscono le parti in metallo, si rompe la struttura che lo sostiene, ecc. Se non si fa, i piccoli problemi si acuiranno e si sommeranno gli uni agli altri fino a rendere l’oggetto irreparabile e/o inutilizzabile.

È dunque necessario che si affidi a qualcuno il compito di gestire i tank, dopo che il progetto sarà concluso, al fine di garantirne la sostenibilità nel tempo.
Non so nè SE, nè, in caso, A CHI, l’ong che aveva fatto il progetto in questione avesse affidato la gestione. Tuttavia le possibilità sono queste:

  • a un’autorità locale tradizionale: vale a dire a una persona che ufficialmente/politicamente/giuridicamente non possiede alcun potere, ma possiede un potere “tradizionale”, ossia nell’ambiente socio-culturale di riferimento e in virtù di un’investitura divina piuttosto che culturale, comunque sia legata alla tradizione locale (es. gli anziani del villaggio o della tribù).
  • un’autorità locale ufficiale: vale a dire una persona dotata di poteri ufficiali/giuridici/politici (es. sindaco, amministratore ecc.)

Quale che sia stata scelta, nessuna di queste due figure, naturalmente,  si occuperà della manutenzione e gestione pratica, fisica, dei tank. Quest’ultima sarà affidata a un operaio. Il problema qui è, in breve, che l’operaio africano (ugandese?) medio non lavora… se non è controllato.

PRECISAZIONE: Quest’ultima osservazione mi è stata riferita e confermata da schiere di missionari comboniani che hanno vissuto e lavorato qui (infermiere, ostetriche, insegnanti, amministratori, muratori, ecc.) nonchè cooperanti che ho incontrato qui. Quindi: può benissimo essere che questo giudizio sia viziato dal numero ridotto delle persone che ho conosciuto e dalle ridotte esperienze delle persone che me lo hanno riferito; non c’è ALCUN dato scientifico. Semplicemente la loro vita “sul campo”, tra le persone; 20, 30, 40 anni in Uganda e in altre zone del mondo, ma prevalentemente in Africa: Zambia, Etiopia, Nigeria, Congo, Kenya, ecc. La cosa quindi è: un lavoratore “dipendente” africano medio in Africa (e questa specifica è da fare! per gli africani all’estero è tutta un’altra storia e mi è stato spiegato il perchè), se non è controllato/supervisionato, farà il minimo possibile, cercherà di non lavorare, cerca di “fregarti”, ecc. Non perché sia “cattivo” e/o sfaticato e/o altro, naturalmente, ma per questioni culturali (da riprendere in un altro post, altrimenti vado fuori tema!) Un discorso che, me ne rendo conto, suona razzista, per niente politically correct e tutto quanto…MA: secondo le persone incontrate corrisponde alla media della realtà (e per quanto ho visto io stessa, purtroppo, vero)!

Riprendendo il caso dei tank:

La manutenzione pratica verrà affidata ad un operaio. Questo operaio, probabilmente, non farà la manutenzione, per le ragioni spiegate. Allora il suo supervisore:

  • se è stato scelto il capo tradizionale: il capo tradizionale, perchè vengano rispettate le regole nella sua comunità, si appella al volere divino. In pratica: fate questo altrimenti gli spiriti (degli antenati)/dei/… via faranno quest’altro di brutto. Sulla base di questo meccanismo vengono date tutte le regole per la comunità. MA, nel caso dei tank: non c’è alcuna regola tradizionale che indichi come una persona sarà punita dagli spiriti per non aver fatto la manutenzione, perchè questo lavoro non rientra nella tradizione. Quindi il capo non ha potere di persuasione ne tantomeno coercitivo sull’operaio.
  • se è stato scelto il capo ufficiale: non ha potere neanche lui perchè non può mettere l’operaio in galera, nè dargli la multa perchè non fa il suo lavoro, pagato dalla ong. Inoltre, la classe governativa/amministrativa (come anche in Italia…figuratevi qui) è lenta, inefficiente e meno prona degli altri a lavorare (ho vari esempi a supporto di questa idea, così come credo chiunque sia mai stato in Africa).

Alla fine è successo che tutti questi tanks (non ho idea quanto sia costato il progetto, ma lo immagino grossino visto il coinvolgimento della UE), prima o dopo, sono andati in disuso e ora sono “cattedrali nel deserto”…oppure sono diventati case o albergo per i polli! (già meglio di niente! 😉 ) Comunque sia, non è stato raggiunto l’obiettivo generale di garantire un certo approvvigionamento d’acqua agli abitanti dei villaggi coinvolti.

E quindi come si risolve? A me pare che vi sia un problema che riguarda sia il contesto socio-culturale (sconosciuto dalle ong? mah, mi sembra strano…) e ci metterei anche etno- , e quindi il progetto non si è autosostenuto nel tempo. Dunque, un progetto del genere come può diventare “sostenibile” ed efficiente? Secondo me è un casino, non ne ho idea.

Una soluzione è che qualcuno della ong, resti a fare la guardia sul posto. Triste, ma l’ho visto fare, e funziona (finchè quell’uno resta).

Un’altra, secondo la visione del bishop, è quella di fare progetti a lungo termine, in modo che si impatti non solo sul problema pratico ma anche sulla cultura locale; esempio: sul senso INDIVIDUALE di responsabilità (e sui termini “personale/individuale VS. comunità” in Uganda (Africa??) spero di tornarci presto perchè mi sembra di capire che sia un nodo crucialissimo!), nel caso specifico: il senso di responsabilità individuale dell’incaricato alla manutenzione (non ho bisogno che mi si guardi sopra, faccio il lavoro comunque ecc…). E anche questa soluzione non ha garanzie: ho conosciuto cooperanti che hanno seguito progetti agricoli qui per 10 o più anni e adesso, a conclusione del progetto, pare che stia andando tutto in vacca. Grosso sconforto.

Vi lascio con questi dilemmi sullo sviluppo. Vorrei tanto avere un pezzo di Gentili con me 🙂

Baci alle mie amiche/colleghe di COSDI

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3 thoughts on “appunti dal campo N.1

  1. Anonimo ha detto:

    sei un imbecille

  2. ale ha detto:

    Sono assolutamente d’accordo con tutto quello che hai scritto e in particolare sull’ultima cosa, cioè il fare progetti a lungo termine, come ti diceva il bishop. La cosa che più mi ha entusiasmata del partenariato (attenzione, non “progetto”, ma “partenariato”, ci hanno tenuto più volte a sottolinearlo, e giustamente) EuropAfrica che ho seguito nella tesi, è stato proprio il fatto che è nato 15 anni fa, e che non si è mai legato all’andamento di un unico progetto (che in media dura 3 anni). E’ nato in forma volontaria, per la voglia di fare di alcuni africani e alcuni europei, e tutt’ora chi ci lavora non è pagato ad hoc per quello (magari lo è nel contesto della sua organizzazione, non so), ogni tanto si finanziano presentando una parte del lavoro che stanno portando avanti sotto forma di progetto all’UE, e vanno avanti cosi. E il bello è che FUNZIONA. Certo, è una cosa “politica”, non progetti “di terreno” (tipo i tank),però il ragionamento è lo stesso. Fare le cose a lungo termine.
    Purtroppo però, questi ragionamenti cozzano con la visione dei politici, siano essi nazionali o europei: il mio mandato dura 4 anni? allora io ti finanzio cose che possono durare al massimo entro il mio mandato, se no, mica vorranno benediciarne i miei successori, magari di un altro partito? Ovviamente a livello europeo la cosa è più complessa, ma l’assunto è più o meno simile.
    La soluzione, quindi, è lavorare con la nostra VOLONTA’ (è questo il senso migliore della parola VOLONTARIATO, a mio avviso), cercare quando si può finanziamenti giusto per campare, e andare avanti con le nostre forze. Ma purtroppo non tutte le realtà della cooperazione ragionano così: sono molto pochi gli “illuminati”, e le missioni, in genere, sono tra questi.

    ps: posso dirti un “te l’avevo detto prima che partivi che bisogna stare li e guardare prima di agire”? 🙂 il america latina vige la regola “VEDERE-PENSARE-AGIRE”, sempre, per ogni cosa. Te quiero, como siempre.

    • sushiharold ha detto:

      interessante!! forse dovrei leggere la tua tesi… mumble. Anche perchè la sicurezza alimentare mi sta intrigando (e come non potrebbe? è una condizione necessaria allo “sviluppo” di tutto il resto…)
      Per i progetti più pratici (non so, forse ho ancora poca esperienza, ma per ora mi ispirano di più rispetto a quelli politici. Anche se quelli politici dovrebbero essere imprescindibili…) credo che 3 anni siano pochini, in questa regione, perchè qui si parte veramente da ZERO. Magari van bene per zone più sviluppate (tipo quelle dove opera EuropAfrica o anche altre zone dell’Uganda).
      Oddeo 😦 parlando di politici, ho sempre più la sensazione (quasi fisica, tanto è forte) che il nostro lavoro è andare contro al mondo. Che amarezza. E contemporaneamente, che carica!!
      Le missioni (per quel che ho visto) fanno tantissimo e bene. Unico problema (mio personale) è sta cosa dell’evangelizzare (che pure il bishop mi ha spiegato la sua versione e non è male, ma c’è sempre di mezzo la chiesa. Devo ricordarmi di parlarne altrove).
      Che bello sentire le tue suggestioni, pensieri, correzioni anche da lontano e condividerle con chiunque abbia voglia di leggere 🙂
      i love you sista!

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